La terza testa di Cerbero: un (Terzo) Mondo che vive nell’ombra del sole più luminoso che esista

Cerbero è, nella mitologia classica, il guardiano degli Inferi, una creatura affascinante e mostruosa dotata di tre teste. Il Terzo Mondo è per me come Cerbero. Non tanto perché presenzi alle porte dell’Inferno – nonostante nei miei ricordi siano incastonate immagini non dissimili a ciò che comunemente potremmo definire un inferno in terra – quanto piuttosto per la triplicità del suo capo. L’Africa, e il Kenya in particolare, è per me come una creatura a tre teste.

La terza testa è la più affascinante.

È innegabile, dopotutto, che Cerbero sia una creatura ammaliante. Immaginatelo davanti a voi, magari in una gabbia ermetica. Nonostante ne abbiate conosciuto i lati più brutali e crudeli, non ne sareste comunque magneticamente attratti? Questo è stato l’effetto che su di me ha avuto la Savana.

Siamo partiti da Nairobi una mattina all’alba e poche ore dopo attraversavamo con un van la Rift Valley. Ancora qualche ora e davanti a noi si stagliavano soltanto migliaia di chilometri di natura incontaminata, quiete e lentezza. Il nostro alloggio era una tenda dotata di un piccolo bagno e di tre posti letto nel mezzo della Savana, con mucche che vi pascolavano attorno e un elefante smarritosi una notte più buia delle altre. Il cibo, preparato dallo staff del Masai Mara e con esso condiviso, era semplice, frugale e genuino. Non esistevano distrazioni in quel luogo incantato: la connessione internet era assente, così come quasi ogni collegamento con il mondo esterno. Si mangiava all’interno della riserva, ascoltando i rumori della Savana e osservando il cielo mutare le proprie sfumature.

Ritrovarsi nel cuore dell’Africa, circondati dalla natura più selvaggia e a stretto contatto con leopardi, leoni, elefanti, giraffe, zebre, bufali, gazzelle e coccodrilli è un’esperienza che va oltre la bellezza delle immagini che animano i documentari televisivi e le riviste scientifiche. Quando da bambina mi perdevo tra le steppe e gli arbusti di National Geographic, ero certa che se un giorno mi fossi trovata lì, sarei rimasta a bocca aperta proprio a causa della potenza di ciò che i miei occhi avrebbero ammirato. Ora, a distanza di quasi vent’anni, so che trovarsi nel cuore della Savana non rappresenta soltanto un’esperienza incredibile e mozzafiato, ma anche e soprattutto un momento di connessione interiore. La realtà con la quale ci si ritrova faccia a faccia è un mondo altro, silenzioso, lento; un mondo fatto di tramonti infuocati e cieli stellati, di fragranze pungenti e di suoni vivi e vibranti. Un mondo in cui l’uomo è soltanto un animale come tutti gli altri; un unus inter pares.

Ho conosciuto degli uomini nella Savana. Molti dei suoi terreni aridi e secchi sono abitati dai Masai, i guerrieri che compongono la tribù più antica dell’Africa – o così mi hanno detto. Trascorrono le giornate all’interno di villaggi rudimentali e camminano per ore, a volte anche per giorni, per raggiungere i centri abitati limitrofi dove barattare animali o bigiotteria in cambio di prodotti alimentari. I Masai non coltivano alcuna piantagione, per non rischiare di attirare le attenzioni di animali indesiderati: le donne si occupano di costruire le case, di allevare i figli, di cucinare e di realizzare una bigiotteria particolarmente estrosa. Gli uomini allevano mucche, capre e pecore. Sono entrata nella casa di un guerriero Masai che, in una manciata di metri quadri (non molti più di una decina) delimitati da quattro mura di fango e sterco, ospitava una zona cucina e più di tre posti letto per la sua famiglia. Le giornate in questi villaggi scorrono lente, volutamente distanti dalla frenesia e dai rumori del mondo civilizzato. Quest’ultimo, però, avido com’è di espansione e guadagno, ultimamente fatica ad accettare che una porzione di mondo non venga debitamente sfruttata e mina all’oasi di autenticità che il popolo Masai è riuscito a mantenere invariata per migliaia di anni.

Ho vissuto in una realtà atemporale, che nella quiete combatte una battaglia durissima. Un mondo che resiste, che silenziosamente si oppone all’avidità dell’uomo, continuando a preservare la propria bellezza primordiale.

Il pensiero che stessi vivendo all’interno di una dimensione onirica e irreale non mi ha mai abbandonata durante tutta la mia permanenza nella Savana: sbalzata su e giù dai movimenti del van, realizzavo di trovarmi in una delle rare porzioni del Pianeta rimaste immobili di fronte ai mutamenti del tempo, e mi sentivo fortunata. Davanti a me si ergeva il mondo come si presentava milioni di anni fa e io ero una delle poche persone a poterlo vedere con i propri occhi.

Niente è stato per me così totalizzante e spirituale come i giorni trascorsi nella Savana. Nell’immaginario comune un Safari in Africa equivale a un’esperienza esclusivamente turistica, con un’accezione spesso negativa. Non sarebbe strano chiedersi come possiamo essere stati così sfacciati, i miei compagni di viaggio ed io, da toccare con mano la povertà più assoluta e decidere comunque di trascorrere tre giorni da turisti, armati di fotocamera in mano e cappello in testa. Domanda assolutamente comprensibile, ma che potrebbe essermi posta soltanto da chi nella Savana non ci è mai stato. Perché una volta lì dentro, una volta immersi nel silenzio più assoluto e faccia a faccia con la natura potente e cruda, nessuno la definirebbe un’esperienza turistica. Nella Savana non sono stata una turista, sono stata un essere umano. Vulnerabile, impotente, debole. Mi trovavo di fronte al mondo che ha cullato l’uomo, ma di cui nessun uomo ha memoria. Ero semplicemente una donna, teletrasportata con una macchina del tempo alla sua essenza primordiale. Ho ascoltato il rumore del silenzio, ho respirato la brezza pungente del mattino, ho permesso al sole più vero che abbia mai visto di scaldare la mia pelle con ogni sua sfumatura.

Ho visto il Kenya, un mondo che vive nel buio, colmo di insidie e di angoli pungenti.

Però che vista meravigliosa.

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