La seconda testa di Cerbero: un (Terzo) Mondo che sorride anche se non ha niente

Cerbero è, nella mitologia classica, il guardiano degli Inferi, una creatura affascinante e mostruosa dotata di tre teste. Il Terzo Mondo è per me come Cerbero. Non tanto perché presenzi alle porte dell’Inferno – nonostante nei miei ricordi siano incastonate immagini non dissimili a ciò che comunemente potremmo definire un inferno in terra –, quanto piuttosto per la triplicità del suo capo. L’Africa, e il Kenya in particolare, è per me come una creatura a tre teste.

La seconda testa è la più dolce.

A Thika, cittadina a cinquanta chilometri da Nairobi, esiste un centro gestito da alcuni angeli. John, Edith, Kim e Wycklife (ma non solo) hanno deciso di dedicare la loro intera esistenza a bambini che una vita – una vita vera – rischiano di non condurla mai. Chi ha la fortuna di imbattersi in questi angeli viene aiutato ad allontanarsi da droga, spaccio e delinquenza, per conoscere il reale significato della parola “infanzia”. In Kenya avere dieci anni equivale spesso a subire abusi sessuali, essere costretti al lavoro nelle discariche o ripiegare su sostanze tossiche per annullare fame e sete. Troppo spesso l’elemosina sottrae tempo al gioco, le lacrime ai sorrisi, il lavoro alla scuola e alla crescita culturale. “Action for Children in Conflict” (AfCiC), però – la ONG che da un anno collabora con studenti italiani grazie a un progetto nato da uno studente un po’ più intraprendente degli altri – non ha mai travisato il concetto di “infanzia” e con il suo lavoro offre ad ogni bambino la possibilità di abbracciarlo in ogni sua sfaccettatura.

Per alcuni mesi i ragazzi prelevati dalle strade di Nairobi vengono accolti tra le mura del Temporary Rescue Centre di Karibaribi e strappati dalla vita di soprusi e abusi che sono costretti a condurre.

È qui che ho conosciuto alcuni di loro.

Ognuno di noi, nell’attimo stesso in cui li vive, percepisce immediatamente che alcuni momenti rimarranno per sempre incastonati fra i propri ricordi. Volente o nolente, ognuno di noi porta, nel taschino della propria mente, una lista di immagini disegnate con un pennarello indelebile. A Karibaribi la mia lista si è allungata. Mentre pensavo che i fagioli fossero veramente insipidi, ho visto un bambino spartire il proprio piatto con un altro bambino che aveva già ricevuto e terminato la propria razione. Questo secondo bambino non aveva chiesto di averne di più; lungi da lui era pretenderne ancora. Semplicemente lo aveva osservato con gli occhi trasparenti, puri e ardenti di chi ha ormai normalizzato che a quattro, sette o dieci anni la fame sia una costante con cui fare amicizia. Ho seguito con lo sguardo il bambino con il nuovo e prezioso bottino fra le mani e l’ho visto condividerlo a sua volta con altri due compagni, i cui occhi scintillavano come stelle.

Osservare i bambini del centro mangiare è stata una delle esperienze più affascinanti, curiose e dolci della mia vita. Questi bimbi, dopo aver trascorso anni a cibarsi quasi di nulla, al Centro pranzano e cenano con un piatto ricolmo di spinaci, fagioli e riso (talvolta sostituito con l’ugali, tipica pietanza kenyota simile alla polenta). Con una disciplina disarmante, ogni giorno all’ora del pasto si dispongono in fila indiana, prima davanti alla fontanella dove si lavano le mani, poi di fronte alla mensa. Ognuno prende il proprio piatto, sempre e solo uno, e si dispone in silenzio al tavolo. Non un capriccio, non una lamentela esce mai dalle loro bocche. Ogni giorno mangiano gli stessi alimenti e ogni giorno sembra che quello sia il primo in cui li assaggiano. Mangiano di gusto, assaporano, ma non esitano neanche un secondo a condividere la propria porzione, affamati di vita ma strapieni di bontà.

Non esistono smartphone a Karibaribi. Non esistono videogiochi e i social sono passatempi rari in tutto il territorio kenyota. I bambini trascorrono le giornate in tutt’altro modo.

Ricordo perfettamente la sensazione potentissima che mi ha investita quando, uno dei primi giorni, li ho osservati infilare perline per creare braccialetti e collane. Era la genuinità quella che vedevo, così pura, così nuda e cruda da bruciare il cuore. Nel mondo occidentale il XXI secolo ha inaugurato il millennio della distrazione, della meccanizzazione di massa e della spettacolarizzazione fugace. Dall’Occidente il Kenya è stato sfiorato soltanto in minima parte, ma da una cosa non è stato sicuramente toccato: l’incapacità di fruire delle cose semplici. Non c’è alcun dubbio che, se i bambini nati negli slums vedessero con i propri occhi come scorre la vita soltanto a qualche centinaio di chilometri, sognerebbero con i loro grandi occhi di essere al nostro posto. Eppure, mentre li ascoltavo intonare per l’ennesima volta la stessa filastrocca, ero io a invidiare loro. Li invidiavo perché, nonostante non possiedano niente, non hanno mai perso due virtù che a noi europei, grandi e piccoli, mancano da tempo. Li invidiavo perché pazienza e semplicità nel mio mondo non esistono più.

In Kenya a quattro anni i bambini lavano da soli i propri vestiti. Ogni giorno, intorno alle sei del pomeriggio, si riuniscono di fronte alla fontanella del Centro di Karibaribi muniti di saponetta e sfregano con energia la terra rossa di cui gli indumenti sono impregnati. Per questo, però, non li ho mai invidiati. Certo, rimanevo a bocca aperta a osservarli sfregare così minuziosamente le scarpe, pensando che nel nostro mondo spesso neanche a diciotto anni si è disposti a farlo; ma non li invidiavo. A quattro anni essere in grado di badare a se stessi perché si è soli al mondo è pura tragedia.

Durante le giornate trascorse con loro ho realizzato quanto possa essere dura una vita in cui il pensiero di un futuro brillante è una speranza così rarefatta. In Kenya l’istruzione è a pagamento e questo condanna milioni di bambini a non ottenere mai la possibilità di accedervi. Però ho conosciuto anche chi, con la propria luce, ogni giorno li irradia di speranza e insegna loro che la vita è una cosa meravigliosa. O almeno, l’ha insegnato a me.

Si chiama Edith e a ventisette anni fa la maestra, l’educatrice e la mamma di bambini di strada. Ho assistito con lei alla partenza di due ragazzi del Centro verso il loro primo giorno di scuola superiore e ho letto negli occhi di entrambe le parti la consapevolezza che ad aver permesso quel raro traguardo fosse stata proprio lei. Quando le ho chiesto perché avesse deciso di donare anima e corpo a una causa così profondamente complessa, mi ha risposto che non c’è niente al mondo che la arricchisca più della speranza di rappresentare, anche per una sola vita, il timone in grado di mutarne la rotta.

Grazie a lei ho conosciuto un mondo che sorride nonostante non possieda nulla.

 

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