La prima testa di Cerbero: un (Terzo) Mondo che piange, ma che non fa rumore

Cerbero è, nella mitologia classica, il guardiano degli Inferi, una creatura affascinante e mostruosa dotata di tre teste. Il Terzo Mondo è per me come Cerbero. Non tanto perché presenzi alle porte dell’Inferno – nonostante nei miei ricordi siano incastonate immagini non dissimili a ciò che comunemente potremmo definire un inferno in terra –, quanto piuttosto per la triplicità del suo capo. L’Africa, e il Kenya in particolare, è per me come una creatura a tre teste.

La prima testa è la più crudele.

Esistono, disseminate sul territorio kenyota, decine di baraccopoli che si estendono a macchia d’olio per centinaia di chilometri. Si tratta di vere e proprie città fantasma, nelle quali milioni di persone vivono, mangiano, lavorano e dormono – citando Internet – “in condizioni di vita al di sotto degli standard di benessere”. Citando me, invece, suonerebbe più come “nettamente al di sotto del livello minimo sottoscrivibile come dignitoso”, che è ben distante dal concetto di “benessere”.

Mathare occupa la periferia Nord-Est di Nairobi. Si tratta dello slum più esteso del continente africano, con una popolazione stimata di un milione di abitanti. “Stimata” sta per censita, ma quanti sono effettivamente i bambini fantasma? I bambini che nascono ad un ritmo serrato e crescono privi di identità? I miei compagni di viaggio ed io li abbiamo visti, e possiamo definirli “fantasmi” non solo perché lo Stato di appartenenza ne ignora l’esistenza, e con questa i diritti di cui dovrebbero godere in veste di cittadini. Come fantasmi, si aggirano nei vicoli di Mathare senza alcuna cognizione di spazio e di tempo. Tra le mani stringono bottigliette di plastica o lembi di stoffa impregnati di sostanze tossiche, che inspirano per annullare ogni sensazione. Per dimenticare la fame, la sete, il dolore, la consapevolezza di una vita che non può essere considerata tale. Sono fantasmi perché nei loro occhi si staglia il vuoto.

Bambini, adulti, donne, uomini vagano, come presi da un sortilegio che assopisce le facoltà cognitive, per i vicoli della baraccopoli, oppure si riversano inerti ai lati delle strade, su strati di detriti, feci e rifiuti organici. Se il loro respiro non fosse reso evidente dal movimento della cassa toracica, si direbbero morti. E forse è proprio così: respirano, è vero, ma non sono più vivi. Come può essere considerata vita quella trascorsa tra i confini di una città fantasma, dove non esistono fogne e l’elettricità è una fortuna di pochi? Una città nella quale le abitazioni sono costruite con fango, materiali tossici, legno e rifiuti; dove i ristoranti, di lamiera, preparano le pietanze sulla terra nuda, a cielo aperto, e ospitano centinaia di mosche a banchettarvi all’interno.

Non esistono strade asfaltate nel cuore di Mathare: i bambini giocano su uno sconfinato strato di spazzatura che si estende per chilometri, gattonano su terreni concimati da animali che pascolano in libertà, sguazzano tra rigagnoli d’acqua marrone e maleodorante. Gli adulti sbrigano le proprie faccende respirando costantemente l’odore acre, nauseante e inconfondibile della sporcizia, e ne sono assuefatti. Quello per loro è odore di vita. Ma la vita, per quanto talvolta amara, dovrebbe profumare di torte sfornate la domenica pomeriggio, di ammorbidente dopo il bucato, di caffè la mattina e di pelle umida dopo la doccia. È ammissibile anche che non sappia di niente, purché questa neutralità non sia legata a un’abitudine ormai radicata di non distinguere più alcun odore per poter sopravvivere. La vita, quella vera, quella che il mondo sviluppato conduce ogni giorno, non può essere fatta di assuefazione e adattamento. Altrimenti non cadrebbe forse la distinzione stessa tra animali ed esseri umani?

Eppure, non ho mai visto nessun essere umano essere più umano degli abitanti di Mathare.

Dire che non possiedono niente non è retorico: loro non hanno davvero niente, eppure di entusiasmo, ospitalità e gentilezza sono ricolmi. Ho ballato con una cameriera e con alcuni abitanti del posto all’interno di un locale in cui mi è stato offerto il tradizionale whisky, distillato nelle discariche. Le pareti erano di plastica, l’interno, nonostante le alte temperature, non era arieggiato e le mosche non davano il respiro. Eppure ho ballato come se non avessi mai fatto altro, come se quella fosse la cosa più naturale, l’unica da fare, e questo perché ho visto negli occhi dei miei ballerini una gioia che difficilmente incontrerò ancora in futuro. Per la prima volta la definizione di genuinità mi è apparsa chiara.

Durante la nostra permanenza a Mathare, ho stretto le mani e battuto i pugni di decine di donne, uomini e bambini nati e cresciuti in condizioni che non sono umanamente concepibili. La mentalità occidentale non è in grado di immaginare fino a che punto si spinga la tragicità in cui versano alcune zone del Terzo Mondo. Ed è comprensibile: nel nostro immaginario l’esistenza si basa su alcuni punti fermi, essenziali, che non possono venire meno, di qualsiasi zona del mondo si tratti. In Kenya, però, la vita è molto diversa dal nostro immaginario, e non si basa su alcun punto fermo.

Queste persone nascono e crescono nella pattumiera, eppure di loro ricordo soprattutto il sorriso con il quale mi hanno salutata.

Nel momento stesso in cui abbiamo varcato la soglia di quella città fantasma, mi sono resa conto di camminare all’interno di un mondo a parte, parallelo, distante anni luce dal nostro e ignorato da chi ha la fortuna di far parte di quest’ultimo.

Camminavo dentro un mondo che piange, ma che non fa rumore.

Un commento

  1. Manno Liborio

    BRAVA ILARIA CHE È RIUSCITA CON POCHE PAROLE A FOTOGRAFARE LA CITTÀ FANTASMA DI MATHARE E DEI SUOI ABITANTI 😘🙋‍♂️

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