Questa settimana torniamo a parlare di reddito minimo, a seguito dell’adozione da parte dell’Unione Europea della Direttiva in merito all’obbligo di introdurre paghe adeguate all’interno degli Stati membri.
Il nuovo provvedimento di indirizzo, una volta che vi aderiranno tutti gli Stati Europei (Italia compresa) promuoverà in maniera differente l’adeguatezza dei salari minimi legali e contribuirà a raggiungere condizioni di lavoro dignitose per i cittadini europei, senza però fissare direttamente un salario minimo ma lasciando agli Stati la possibilità di legiferare internamente in tal senso.
La caratteristica di tale Direttiva sarà quella di imporre l’obbligo di un salario minimo a tutti quegli Stati che non hanno già una copertura della contrattazione collettiva pari almeno all’80% dei settori. Meglio specificando, possiamo dire che tutti quegli Stati che non hanno una diffusa contrattazione collettiva avranno due possibilità: o adottare un salario minimo per legge o, in alternativa, incrementare notevolmente il prodotto finale della concertazione sociale al fine di raggiungere un numero di contratti collettivi che garantiscano adeguatamente i lavoratori.
E in Italia come siamo messi? L’Italia, diversamente da quello che si potrebbe pensare, è già conforme alla Direttiva UE perché il tasso di copertura della contrattazione collettiva è sopra l’80%.
In ogni caso, se anche si volesse introdurre una legge che si attesti sui parametri della Direttiva per i Paesi sotto l’80% di copertura contrattuale, si parlerebbe, per l’Italia, di una cifra sotto i 7 euro. Una tariffa oraria che è di gran lunga inferiore ai nostri minimi contrattuali, dato che uno studio INAPP ha indicato come il salario orario lordo mediano dei lavoratori dipendenti in Italia, riferito alle posizioni lavorative nei settori privati non agricoli, è pari a 11,2 euro mentre il salario medio è pari a 14 euro.
Dirò una cosa impopolare ma che appare una logica conseguenza di quanto appena detto: quello del salario minimo in Italia risulta nel 95% dei casi un non problema.
I problemi oggi del lavoro sono più da ricercarsi nella possibilità di sotto inquadramento dei lavoratori, nel pagamento in nero di parte della giornata lavorativa e dello straordinario, nonché nel fatto che le associazioni di imprenditori ed i sindacati compiacenti vadano a sottoscrivere in alcuni settori – come quello agricolo – contratti collettivi che scendono sotto i minimi già esistenti e fissati per le categorie interessate.
Eppure, l’introduzione del salario minimo per legge avrebbe un vantaggio significativo: comporterebbe una significativa rivoluzione culturale nel panorama del lavoro, rivalutando l’importanza del lavoro e dei dipendenti. Ecco perché, seppur dal punto vista tecnico non ci sarebbe un cambiamento radicale per la maggioranza dei lavoratori italiani, una legge in grado di valorizzare la contrattazione collettiva andrebbe ad agire direttamente nel substrato culturale e sociale del nostro paese, generando un’evoluzione del pensiero.
La politica non è solo mera risoluzione dei problemi ma è anche – o almeno dovrebbe essere – educazione sociale. Se così non fosse, vivremmo nel mondo della tecnocrazia, con istituzioni lontane, incomprensibili e incontrollabili per la grande maggioranza dei cittadini e con un conflitto parlamentare pari allo zero. Un mondo privo di competenza politica.
Le 500 parole di AQTR tornano la prossima settimana.