Il 21 febbraio 2022, in un lungo discorso[1] al popolo russo, il presidente Vladimir Putin annuncia l’intenzione del governo di riconoscere l’indipendenza delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk.
Nel suo parziale excursus storico, il discorso di Putin ha un obiettivo non troppo nascosto: distruggere le ragioni di un’Ucraina indipendente. «L’Ucraina», afferma, «non è solo un paese vicino a noi. È una porzione inalienabile della nostra storia, cultura e spazio spirituale». Gli ucraini «sono i nostri compagni, quelli a noi più cari, non sono solo colleghi, amici e persone che un tempo hanno prestato servizio militare insieme, ma sono anche parenti, persone legate dal sangue e dai legami familiari». Chi è il colpevole di questa frattura?
Anche qui l’ideologia presidenziale ha una risposta storica: se l’Ucraina moderna è stata «interamente creata dalla Russia», Lenin ne fu l’architetto «in un modo che fu estremamente duro per la Russia, separando, dividendo quella che è storicamente terra russa». Per placare i nazionalisti, Lenin fece loro concessioni a livello di autonomia fino a spingersi all’autodeterminazione, ponendola alla base della statualità sovietica. Così il Donbass «fu spinto in Ucraina»; Stalin le annesse territori strappati a Polonia, Romania e Ungheria; Chruščëv le diede in regalo la Crimea. Nella visione putiniana in cui sembra riecheggiare Talleyrand, «quando si tratta del destino storico della Russia e dei suoi popoli, i principi dello sviluppo statale di Lenin non furono solo un errore: furono peggio di un errore». Un torto della Storia a cui, implicitamente, solo la Storia può porre rimedio.
In quello stesso 21 febbraio si svolge la seduta straordinaria del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, trasmessa per volere presidenziale in diretta televisiva[2]. Una decisione inusuale data la cortina di segretezza che regna da sempre al Cremlino; così inusuale da sembrare sospetta.
Anche l’apparato della cerimonia è distante da quel che un occidentale potrebbe aspettarsi: nessuna sala fumosa o situation room zeppa di generali medagliati in salsa sovietica. La scenografia imperiale è il salone intitolato a Caterina la Grande, una rotonda di colonne candide alte trenta metri dove vengono tenuti i discorsi solenni del presidente. Su un lato, i membri del Consiglio in attesa di essere interpellati; dall’altro, solo alla sua scrivania, Putin dirige il tutto a favore di camera.
La cerimonia non è pensata solo per mostrare grandeur e compattezza: serve per redarguire – e occasionalmente umiliare – i meno convinti dalla linea governativa. A farne le spese è Sergej Naryškin, capo del SVR, i servizi d’intelligence per l’estero. Naryškin propone di concedere più tempo alle trattative con l’Occidente e uno stizzito Putin lo riprende sul sostegno all’indipendenza delle repubbliche del Donbass, richiamandolo per nome e patronimico: «Parli chiaramente, Sergej Evgen’evič… La sosterrei o la sosterrò? Dica sì o no!».
Dalla bocca di Naryškin, visibilmente scosso e fin troppo ansioso di compiacere il capo, esce un lampo di sincerità che svela il reale obiettivo del riconoscimento: «Sì, supporto la proposta dell’annessione delle repubbliche di Donetsk e Lugansk alla Federazione Russa».
«Non stiamo discutendo di questo», sorride Putin spazientito, «stiamo parlando di riconoscere la loro indipendenza o no… Sì o no?».
Il capo dei servizi annuisce: «Sì, sostengo l’indipendenza».
«Grazie, può sedersi ora», lo liquida il presidente, chiamando con un cenno secco l’oratore successivo.
Tre giorni dopo, il 24 febbraio, i corazzati russi oltrepassano i confini dell’Ucraina.
Il patriarca di Mosca Kirill, primate della Chiesa ortodossa, invita «tutte le parti in conflitto a fare il possibile per evitare vittime civili» e a «sollevare una preghiera profonda e fervente per il rapido ripristino della pace», ricordando come russi e ucraini condividano «una comune storia secolare» che «risale al battesimo della Russia da parte del santo principe Vladimir»[3].
Un tono conciliante abbandonato dopo soli dieci giorni durante il sermone tenuto nella cattedrale di Cristo Salvatore, a pochi passi dal Cremlino. È il 6 marzo, domenica del Perdono. Le truppe russe bombardano Kiev e Kharkiv e il patriarca Kirill prega per le sofferenze dei soldati, tuonando contro le forze oscure che tramano contro la Russia. «Questa guerra», afferma Kirill, «è contro chi sostiene i gay, come il mondo occidentale, e ha cercato di distruggere il Donbass solo perché questa terra oppone un fondamentale rifiuto dei cosiddetti valori offerti da chi rivendica il potere mondiale».
Non un’operazione militare speciale, come la classifica l’informazione governativa, e nemmeno una guerra convenzionale: Kirill tratteggia una crociata tra le forze del bene e del male «che va oltre le convinzioni politiche. Parliamo della salvezza umana. Ci troviamo in una guerra che ha assunto un significato metafisico»[4].
Secoli di pasionarnost – la virtù del saper soffrire che la tradizione associa alla passione di Cristo – hanno creato nella psiche russa un’idea del potere. Questa idea si incarna nel termine samoderžavec, «autocrate», una figura sciolta dal vincolo di poteri esterni che mantenga il Paese forte e unito. La rivisitazione della Storia, l’umiliazione dei cortigiani riluttanti, la stessa condiscendenza del potere religioso non destano scalpore. Per un impero multietnico e geograficamente immenso come la Russia, il governo di un monarca paternalista e inflessibile non è secondo la maggioranza della popolazione una scelta, ma una necessità. Come osservato dagli istituti più indipendenti[5], tra autocrazia e anarchia la Russia profonda ha pochi dubbi.
Le radici dell’autocrazia russa derivano dalla concezione bizantina del potere, di cui Mosca si considerava depositaria: il sovrano, successore dei Cesari, è assoluto in quanto vicario della volontà divina su questa terra. Nel XVI secolo il monaco Filofej di Pskov scrive al gran principe Vasilij: «Due Rome sono cadute, la terza [Mosca] è in piedi e una quarta non ci sarà»[6]. Il figlio di Vasilij, Ivan il Terribile, il primo ad assumere il titolo di zar, cela nel suo epiteto il rapporto che la Russia ha coi suoi «piccoli padri»: groznyj significa «minaccioso», ma anche «severo, che incute timore reverenziale»[7].
I russi, oltre a pensare sé stessi come una civiltà, guardano al proprio ruolo nel mondo come un dovere, o meglio, una missione: gli zar erano i protettori della fede ortodossa; i sovietici si proclamavano campioni dell’umanità sulla via della liberazione. In questa continuità si innesta il revanscismo della nuova Russia e il «conflitto metafisico» evocato da Kirill.
Qui sta l’insidia che l’Europa non può ignorare, al di là dell’efficacia delle sanzioni e dell’armamento alla resistenza ucraina. Negli ultimi quindici anni, la figura di Putin è assurta a padre putativo delle destre sovraniste europee che hanno guadagnato consenso dalla crisi della democrazia liberale. L’autocrazia, anche in Occidente, è ora vista come un modello esportabile.
Vladislav Surkov, ex consigliere personale del presidente e ideologo del putinismo, non ne fa mistero: «Gli occidentali iniziano a girare la testa alla ricerca di altri modelli e modi di esistenza. E vedono la Russia. Il nostro sistema sembra ovviamente non più elegante, ma più onesto». Così, nella «democrazia sovrana» orgogliosamente illiberale di Surkov, «tutte le istituzioni sono subordinate al compito principale: fidarsi della comunicazione e dell’interazione del capo con i cittadini. I vari rami del potere convergono verso la personalità del leader, non essendo considerati un valore in sé e per sé, ma solo nella misura in cui forniscono una connessione con lui»[8].
Dal sovranismo al sovrano, il passo è breve.
[1] Linkiesta, https://www.linkiesta.it/2022/02/discorso-putin-ucraina-donbass/
[2] La Repubblica, https://video.repubblica.it/dossier/crisi_in_ucraina_la_russia_il_donbass_i_video/ucraina-putin-gela-il-capo-dei-servizi-segreti-che-cercava-piu-tempo-per-i-negoziati/409072/409778
[3] Agenzia SIR, https://www.agensir.it/quotidiano/2022/02/24/
[4] Corriere della Sera, https://www.corriere.it/esteri/22_marzo_08/patriarca-russo-kirill-guerra-giusta-lobby-gay-531c617c-9e9e-11ec-937a-aba34929853f.shtml
[5] Corriere della Sera, https://www.corriere.it/esteri/22_aprile_06/putin-consenso-russia-4affefd8-b4fe-11ec-a84e-197043dca567.shtml
[6] Roger Bartlett, Storia della Russia, Oscar Mondadori, 2007
[7] Paul Bushkovitch, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, Einaudi, 2013
[8] Il Foglio, https://www.ilfoglio.it/esteri/2019/02/13/news/la-nuova-dottrina-putin-spiegata-da-uno-dei-suoi-consiglieri-237744/