I dolori dell’avvocato del popolo

Doveva essere l’uomo giusto per risollevare un Movimento 5 Stelle da anni in crisi di consensi, sotto la sua guida ha raggiunto il minimo storico e una scissione dolorosa. Eppure i sondaggi sul gradimento dei leader politici lo vedono al primo posto insieme a Giorgia Meloni, che però guida un partito in forte ascesa. Come si spiega allora il flop di Giuseppe Conte a capo del M5S? Sono tanti i fattori da considerare.

Il dualismo con Di Maio e una scissione inevitabile
I risultati delle ultime elezioni amministrative sono stati disastrosi per il Movimento: incapace di presentarsi come forza autonoma, anche inserito in coalizione con il Partito Democratico, nell’ottica del “campo largo” auspicato dal segretario dem Letta, il suo apporto in termini di voti è risultato minimo, raccogliendo una media nazionale del 2%, abbondantemente al di sotto delle aspettative, già di per sé tutt’altro che rosee. Non si è fatto attendere il commento dell’ex capo politico e ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Non abbiamo mai brillato alle amministrative, ma non siamo mai andati così male come questa volta. Succede quando l’elettorato è disorientato e non è ben consapevole di quale sia la visione”. Un attacco diretto alla gestione di Conte, arrivato in concomitanza con la discussione parlamentare sull’invio di ulteriori armi all’Ucraina, con i due aventi visioni diametralmente opposte: Di Maio totalmente allineato alla linea filoatlantica seguita da Draghi improntata al sostegno militare dell’Ucraina, Conte portatore di una linea “pacifista”, che vede nell’invio di armi solo un rischio di aumento dell’escalation militare e un prolungamento del conflitto. Ma è solo l’ultimo capitolo di una tensione che andava avanti ormai da mesi: se già i tempi del governo Conte II si rincorrevano le voci di una forte rivalità tra i due, è con l’elezione del Presidente della Repubblica all’inizio di quest’anno che sfocia nello scontro aperto: Di Maio è tra gli sponsor di Draghi, anche alla luce dell’ipotesi che sia proprio lui a sostituirlo a Palazzo Chigi; mentre Conte si oppone fermamente a questa ipotesi, e porta avanti il nome di Elisabetta Belloni, diplomatica di lungo corso e direttrice del Dis, il coordinamento dei servizi segreti. Il nome della Belloni sembra riscuotere consensi, ricevendo il benestare anche di Lega e Fratelli d’Italia, e la sua elezione sembra vicina, ma è proprio Di Maio, di concerto con il ministro della Difesa Guerini, a mettersi di traverso, dichiarando pubblicamente la sua contrarietà all’ipotesi, che di fatto porterà al ritiro della candidatura e alla rielezione di Sergio Mattarella. Uno sgarbo mai digerito da Conte, che ha chiesto più volte chiarimenti al ministro. Il successivo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina ha reso le divergenze sempre più incolmabili, con Di Maio che si è fatto interprete di una posizione di netta condanna all’invasione russa e di sostegno alle iniziative della Nato, mentre Conte non ha mai smesso di auspicare il dialogo con Putin, per una soluzione negoziale che porti alla fine del conflitto. Si arriva così alla resa dei conti il 21 giugno, il giorno delle dichiarazioni in aula del Premier Draghi sulla posizione italiana in vista del Consiglio Europeo, con voto sulla risoluzione che prevede ulteriore invio di armi a sostegno dell’esercito ucraina. La base del Movimento e la maggioranza dei parlamentari si schiera con l’ex premier, e le posizioni del ministro non vengono più riconosciute come rappresentative della linea politica del M5S. Con questo livello di scontro la scissione è inevitabile, e Di Maio dà vita a “Insieme per il futuro”, portando con sè una sessantina di parlamentari eletti tra le fila dei pentastellati nel 2018, togliendo al M5S lo scettro di prima forza politica in parlamento. Molti interpretano il riposizionamento di Di Maio come frutto della volontà di restare in parlamento anche nella prossima legislatura, essendo ancora previsto tra i 5s il tetto dei due mandati. Sicuramente Di Maio non ha alcuna intenzione di lasciare la politica, come molti dei nomi noti che hanno deciso di seguirlo (Laura Castelli, Manlio Di Stefano, Carla Ruocco), ma lo stesso ministro non ha mancato di sottolineare come due terzi del nuovo gruppo sia composto da parlamentari al primo mandato, i quali potevano tranquillamente ambire alla ricandidatura. Tra questi c’è anche l’ex ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, storicamente considerata vicina a Conte, che invece ha deciso di abbandonare l’ex premier e seguire Di Maio, spiegando di sentirsi inascoltata dai nuovi vertici, e disorientata dalla linea politica intrapresa dal Movimento. Questa scissione insomma non può essere semplicemente derubricata come “attaccamento alla poltrona”, e deve far riflettere e non poco Conte e i suoi sul percorso intrapreso.

I problemi con Grillo e l’ambiguità verso il governo Draghi
Già, ma qual è il percorso del nuovo Movimento 5 Stelle a guida Conte? Proprio da qui bisogna partire per capire le difficoltà dell’”Avvocato del popolo”. Poco aver lasciato Palazzo Chigi, con l’ingresso dei 5 Stelle nel governo Draghi (fortemente voluto dal garante Beppe Grillo, contro lo scetticismo iniziale di gran parte dei suoi esponenti) si apre una nuova fase per Conte, che deve decidere se restare in politica o tornare a fare il professore universitario. Scegliendo di non abbandonare la vita politica, le opzioni sul tavolo sono varie: restare come federatore dell’asse gialloverde che reggeva il suo governo, dare vita a un proprio partito personale, oppure assumere la guida del Movimento 5 Stelle, che dopo le dimissioni di Di Maio come capo politico a inizio 2020 non aveva più un vero e proprio leader, con Vito Crimi reggente ad interim. L’ex premier sceglie proprio quest’ultima strada, che da subito appare in salita. Ancor prima di iniziare questa nuova esperienza, emergono i contrasti con Beppe Grillo, che rischiano di far saltare tutto. Il comico genovese lo accusa di non avere visione politica, e non accetta di buon grado le richieste di Conte sulle prerogative del capo politico, che ridimensionerebbero il ruolo del garante. Nonostante ciò i due riescono a trovare un’intesa, e la base pentastellata incorona Conte come nuovo leader con più del 90% dei voti. Ora è lui a dover dettare la linea, e presto si accorge che guidare un partito è completamente differente dal guidare un Paese. I 5s soffrono sin da subito la partecipazione al governo Draghi, costretti a compromessi su molte delle misure adottate dai due esecutivi precedenti guidati proprio dall’avvocato, come il reddito di cittadinanza, la riforma della giustizia, il cashback e il superbonus edilizio. Inizia così una serie di compromessi al ribasso che intaccano fortemente la credibilità del Movimento, trasformatosi definitivamente da forza di rottura a partito di sistema, come incarna alla perfezione la parabola politica di Di Maio. Di lasciare il governo non se ne parla, anche perché esporrebbe a un rischio di elezioni anticipate che molti parlamentari non accetterebbero, e così Conte si barcamena tra il sostegno ufficiale all’esecutivo guidato da Draghi e le critiche anche accese a parecchi suoi provvedimenti. Non mancano poi segni di insofferenza personale tra l’attuale Presidente del Consiglio e il suo predecessore, sfociato nella presunta richiesta di Draghi a Grillo di rimuovere Conte dalla guida dei 5s, oggetto di discussione in questi ultimi giorni e ancora tutta da chiarire.
Questa strategia “di lotta e di governo” come prevedibile non paga, e aumenta la disaffezione e il disorientamento all’interno dell’elettorato, come testimonia il costante calo nei sondaggi, certificato poi anche dalle urne alle ultime elezioni amministrative. Così facendo l’ex premier sembra ricalcare la strategia comunicativa di Matteo Salvini, anche lui protagonista di un rovinoso crollo dei consensi con la crisi del Papeete prima e l’ingresso nel governo Draghi poi, con la Lega che è passata dal 34% delle elezioni europee del 2019 a meno del 15% di adesso. Anche Salvini attacca quasi quotidianamente il governo sui provvedimenti più disparati (green pass, riforma del catasto, legge fiscale, gestione dei flussi migratori) paventando l’uscita dalla maggioranza, ma finisce per accontentarsi delle briciole e non irretire il fronte “governista” (capitanato dal ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti e dai presidenti delle regioni del nord Zaia, Fontana e Fedriga) lascia il ruolo di unica opposizione a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che al contrario della Lega è in continua ascesa nei sondaggi, attestandosi come primo partito. Non proprio il leader politico da cui prendere esempio insomma.
Per questo sono in molti a chiedere a Conte di lasciare il governo per bloccare l’emorragia di consensi e ricostruire un’identità forte stando all’opposizione, dove avrebbe mano libera per attaccare i provvedimenti governativi. Pare che lo stesso ci stia seriamente pensando, ma il timore di spaccare ulteriormente il Movimento, con altri parlamentari che passerebbero al nuovo gruppo di Di Maio rafforzando così il suo rivale, potrebbe trattenerlo dalla volontà di staccare la spina.

Popolarità non corrisponde a voti
Alla luce di tutto questo, sorge spontanea una domanda: se la sua gestione del Movimento 5 Stelle è così fallimentare, come mai Conte resta in cima agli indici di gradimento dei leader politici? Le ultime rilevazioni effettuate dagli istituti Demos e Ipsos vedono Conte al primo posto della popolarità tra i leader di partito, a pari merito con Giorgia Meloni, che però vive tutt’altra situazione. La spiegazione più plausibile è che i cittadini continuano ad apprezzare la persona, riconoscendogli una buona gestione dell’emergenza pandemica, una delle situazioni più difficili dell’intera storia repubblicana, e apprezzando la sua strategia comunicativa “paternalistica”, fatta di conferenze stampa settimanali e inviti alla cautela per fermare la diffusione del virus, e la sua immagine di uomo pacato e dialogante, caratteristiche che poco si addicono invece ad un leader di partito, soprattutto di un partito che nasce con una carica ribelle e antisistema come il M5S. Per questo, pur continuando ad apprezzarlo, gli italiani non sono disposti a seguirlo in cabina elettorale votando per i 5 Stelle, ai quali non è riuscito ancora a dare un indirizzo ben preciso. Doveva essere l’uomo della definitiva trasformazione da forza di lotta a partito di governo, invece ha scelto una linea ambigua provocando una scissione guidata da chi pochi anni prima denunciava “il mercato delle vacche” in Parlamento. Ha pesato anche la sua scelta di non entrare nelle stanze parlamentari, possibilità offertagli dalle varie elezioni suppletive, preferendo concentrarsi esclusivamente sulla guida del Movimento. Ma così facendo si è tenuto lontano dalle stanze dei bottoni, non riuscendo a controllare a dovere i gruppi parlamentari e imporsi all’interno e all’esterno, come dimostra plasticamente l’elezione del Presidente della Repubblica. La scissione dei “dimaiani” offre ora a Conte la possibilità di ricominciare, non dovendo più fare i conti con un rivale interno così insidioso. I sondaggi dimostrano che il suo potenziale non si è spento, ma se Conte vorrà evitare la fine definitiva del Movimento 5 Stelle dovrà fare tesoro degli insegnamenti – il più delle volte dolorosi – appresi in questi mesi, e capire che quello del capo politico e un ruolo completamente diverso da quello di Presidente del Consiglio, e anche di Avvocato del popolo.

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