Il passato ci ha abituato ad un unico tipo di dittatura che potremmo definire “1.0”, una realtà abbastanza standardizzata in cui, a seguito di un colpo di stato di vario genere e motivato da pensieri e finalità distinte, veniva proclamata una nuova visione, un nuovo leader e un’unica voce.
Con la sua più cruenta degenerazione nell’evoluzione totalitaria dello Stato, la realtà dittatoriale si è dunque mantenuta in precario equilibrio, portando negli ultimi anni alla lenta teorizzazione di una nuova gestione della vita. Le società moderne si sono così assunte il compito di garanti del controllo integrale, gettando l’uomo nella morsa di un più intensivo monitoraggio economico e relazionale.
Seguendo tale interpretazione, le realtà dittatoriali e le conseguenti politiche di sterminio, non rappresentano un’eccezione, quanto invece una tendenza volontaria e immanente dello Stato.
Il biopotere, l’estensione del diritto del sovrano e della pervasività statale, fornisce tecnicamente e politicamente la possibilità di organizzare la vita e di farla proliferare, consentendo allo stesso tempo un controllo sul corpo, sulla popolazione, sull’organismo e sui processi economici e sociali.
Ma la realtà dittatoriale si è veramente estinta o si è semplicemente adeguata ai tempi? E come coniugare tale esperienza ad una libertà mai pienamente sperimentata?
Nonostante oggi non sia più possibile prendere a modello i classici regimi dittatoriali sia per differenza ideologica sia a fronte di contesto storico mutato, il modo stesso in cui gli individui entrano in rapporti reciprochi, implica una particolare declinazione della libertà.
La visione auto assicurativa della libertà comporta una volontaria subordinazione ad un ordine più potente che la garantisca. Dunque, l’individuo moderno, il cittadino di una società democratica, finisce per mettersi nelle mani del primo padrone che si presenta, stipulando un patto nuovo che ha come posta in gioco la vita, da proteggere o da salvaguardare. Ed è proprio quando la libertà viene riconosciuta come il diritto di avere qualcosa e non come atteggiamento che si profila la visione più privativa di essa. Dice Umberto Eco che «quando qualcuno deve intervenire a difesa della libertà di stampa, vuol dire che la società e con essa la libertà stessa è già ammalata»[1], e mai come nella situazione geopolitica attuale, queste parole incarnano l’obiettività.
Un quarantennio fa, il massimo esempio di controllo digitale a tutto tondo perpetuato da uno Stato, al fine di monitorare ogni aspetto relazionale impostando una società rigorosamente organizzata e disciplinata, era rappresentato dalla Stasi, una polizia in azione nella DDR, modello di come un regime autoritario potesse utilizzare la repressione per mantenere il controllo digitale.
Solo qualche anno più tardi sarebbe stato sancito l’apparente trionfo del liberalismo sul meccanismo, oramai ossidato, che il panorama sovietico aveva per molto tempo cercato di presentare al mondo.
Uno Stato di controllo di tal tipo non sembrava più realizzabile, anche a fronte della grande importanza attribuita alle libertà personali e sulla base delle tecnologie che, inaugurando il nuovo millennio, promettevano maggiore responsabilizzazione del cittadino.
La speranza di un futuro più libero e democratico si è però rivelata in parte vana, anche alla luce del sempre più frequente utilizzo di tecnologie informatiche da parte di governi che ne stanno traendo ampi benefici in ottica di controllo manipolativo.
L’esempio più incalzante è rappresentato dalla Cina, emblema di una supremazia economica globale, che tramite una superiorità in termini tecnologici, riesce tutt’oggi a monitorare abilmente la società, – quasi un miliardo e mezzo di persone – operando un rigido sistema di controllo.
In un sistema sottoposto a monitoraggi continui da parte dello Stato, l’inaspettato avvento di Internet alla fine degli anni ’90 e la conseguente ondata di digitalizzazione, colsero però impreparato il governo cinese e permisero così alla popolazione di affacciarsi per la prima volta sul palcoscenico della vita pubblica. Da quell’episodio sono passati molti anni e, a oggi, lo sviluppo del dragone cinese procede di pari passo con una restrizione maggiore nel controllo dei mezzi di informazione, acuita dalla realizzazione del “Gruppo per l’informatizzazione e per la sicurezza di Internet”, creato dal presidente Xi Jinping e da lui stesso presieduto, con il compito di supervisionare la gestione e la censura della rete.
In un clima di estremo rigore e controllo trova spazio un altro esempio a testimonianza della censura perpetuata dal governo cinese.
Un episodio insignificante di per sé ma, che se ben contestualizzato, dimostra l’avvento di una vera digitalizzazione autoritaria è il seguente.
Il protagonista è Winnie the Pooh, il celebre orsetto di fantasia creato della Disney nel 1926, del quale è scomparso qualsiasi riferimento della rete informatica asiatica, poiché utilizzato dall’opposizione – a fronte della somiglianza – per opere di schermita nei confronti del presidente Xi Jinping.
Le più vigorose azioni digitali di manipolazione e di coercizione si sono però concentrate nella regione dello Xinjiang, zona da sempre abitata dalla minoranza etnica uigura, trasformata in un solo decennio in un Big Brother in stile orwelliano, divenendo un ampio centro di controllo e di videosorveglianza, in cui ogni cittadino è schedato e monitorato in ogni suo spostamento.
Sono però purtroppo molti altri esempi di digitalizzazione autoritaria, o meglio di tecnoautocrazia; l’ultimo, in ordine temporale, solo poche settimane fa nell’Europa più orientale.
Ciò il cui mondo è ricaduto da quasi un mese preannuncia il ritorno ad un controllo statale inesorabile, a testimonianza del rapporto mai interrottosi tra cittadini, l’accerchiamento e il controllo statale. In uno scenario geopolitico di difficile interpretazione su tutti i fronti, la scelta di Putin di “cestinare” i più importanti social di informazione – proiezione della megalomania occidentale – ne rappresenta la più tetra escalation, determinando l’approdo verso una realtà di informazione primordiale, distorta e quindi più facilmente manipolabile.
Da presidente a digital dictator, la strada è semplice: si va così a delineare la rappresentazione di una verità messa in scena, in cui gli eventi vengono organizzati in funzione della loro rappresentazione e proiezione mediatica. Da sempre ad ogni verità messa in scena corrisponde ad una verità taciuta, stravolta e manipolata.
[1] G. Bocca, Annus Horribilis, Feltrinelli Editore, Milano 2010.