Se c’è un risvolto positivo di una frase come “fino al 1945 l’Italia non è stata una democrazia liberale. Mio nonno ha avuto un’infanzia felice sotto il fascismo” se c’è, ribadisco, è sicuramente quello di spingere ad una riflessione rispetto cosa sia effettivamente la vita quotidiana sotto regime. È piuttosto semplice, infatti, concentrarsi sulle storture più violente ed evidenti della gestione totalitaria di una nazione.

Tralasciamo la parzialità con cui un’esperienza altamente personale e per sua natura infettata dall’emotività presti già di per sé il fianco ad una seria e doverosa critica. Soprattutto quanto un simile errore di metodo viene commesso da chi, un metodo critico, dovrebbe insegnarlo deduttivo o induttivo che si voglia.

Più complesso è provare ad analizzare, o semplicemente immaginare, cosa possa concretamente significare svegliarsi la mattina, bere il caffè, andare a lavorare, in palestra, tornare a casa e buttarsi sul divano in un paese privo della libertà d’espressione. Nell’accezioni più ampia del divieto, chiaramente.

Ecco l’errore più comune, forse più comprensibile, che commetteremmo è pensare che, di fatto, a cambiare non sia poi così tanto. “Non è che a votare qui da noi siano in tanti”, “anche qui da noi, a prendere le decisioni sono sempre le stesse persone”, “anche qui da noi, ormai si sa, la democrazia non esiste più”. Se a questo pugno di riflessioni, diciamolo un po’ avvilite e avvilenti, si aggiunge quella routine giornaliera che toglie tempo e voglia per pensare, ecco che il gioco è fatto. Un binario tortuoso e perverso che ci porta alla stazione del “non cambierebbe poi così tanto”.

Allo stesso modo, calpestare il millenario campo di battaglia che vede frapposta democrazia e dittatura, soprattutto indossando l’armatura dalla parte della prima, rischia sempre di sembrare tremendamente retorico, facile e obbligato.

Ecco perché, secondo me, risulta paradossalmente pratico “provare ad immaginare” con uno sforzo completo come si svolga la vita di un essere umano all’interno di una cornice oggettivamente differente dalla nostra. Per farlo, dunque, come spesso accade quando “proviamo ad immaginare”, facciamoci aiutare da un racconto. Il racconto di un altro tipo di crescita, quella che intorno ai trent’anni ci obbliga a compiere una bella infornata di scelte irreversibili.

Ecco, un racconto meglio di altri riesce a collocare questa fase complessa sul piano inclinato della vita sotto dittatura: “il cattivo poeta”. Il film di Gianluca Jodice che, tra le altre cose, descrive la parabola politica e lavorativa di un giovane nella gerarchia amministrativa del partito fascista. Oltre all’ingombrante narrazione dell’ultimo anno di vita di Gabriele D’Annunzio, la pellicola ricostruisce una fase molto precisa della carriera del camerata Giovanni Comini.

Un prodigio del G.U.F. protagonista di una fulgida ascesa nelle fila giovanili del Partito Nazionale Fascista approdando alla carica di vice-podestà e, poi, di segretario federale di Brescia nel 1935, all’ età di ventotto anni.

Ed è qui che facciamo la sua conoscenza che il cinema decide di introdurlo a noi spettatori, in una fase ben precisa della carriera del giovane e volenteroso camerata. Durante il suo mandato da federale, infatti, Comini riceve l’incarico dal segretario del partito Fascista Achille Starace di rimanere a stretto contatto e sorvegliare attentamente il poeta Gabriele D’Annunzio, divenuto fonte di preoccupazione per il regime.

Nei suoi diari si leggono impressioni e dettagliati resoconti del periodo di sorveglianza e dei suoi rapporti con D’Annunzio, e del coinvolgimento dell’OVRA nella faccenda.

Superato l’evidente ostacolo rappresentato dall’esplicita adesione ai valori del fascio, Jodice riesce a raccontare la vita di un giovane professionista, un ventottenne competente e volenteroso alle prese con un fenomeno su cui probabilmente non aveva riflettuto appieno. Un piano inclinato, appunto, che porta il protagonista a scontrarsi con la dura realtà rappresentata dall’assenza di libertà di pensiero.

Dal secondo atto in poi, Comini, sbatte il muso sulle storture tipiche del regime. Repressione sommaria, atti di violenza ingiustificati e ingiustificabile, terrore sacro instillato dalle istituzioni in maniera così capillare e profonda da corrompere e distruggere ogni altro sentimento, tra gli altri… Su tutti, però, si staglia quella capacità concentrica della dittatura di creare insiemi via via più stretti alla ricerca di una devozione e di una fedeltà che non bastano mai. Una ghigliottina costante, inesorabile, alimentata dal dubbio e dal sangue anche di persone via via più vicine a chi, quella ghigliottina, la fa scattare ogni giorno.

Ora, l’esempio è quello dell’Italia degli anni ’30 perché come ha dimostrato il prof. Orsini avere nonni e parenti che hanno attraversato quegli anni, rappresenta una circostanza molto utile e funzionale nella forgia dell’opinione personale.

Ma il vero punto di forza della pellicola è il racconto della quotidianità del trentenne nelle istituzioni, in quel preciso contesto politico. Un messaggio che già dopo pochi minuti diventa così ben strutturato, evidente, quindi potente, da rappresentare un paradigma della vita sotto dittatura.

Un paradigma così valido, appunto, da suggerire altrettanto valide riflessioni anche nell’Europa del 2022. A costo di sembrare banale, la libertà di pensiero rientra nel grande insieme delle “cose che si apprezzano solo quando non le si ha più”. Affermazione paternale? Forse. Ciò non toglie che in un contesto politico dittatoriale, dovremmo intervenire su molte più abitudini di quanto ci piaccia o si abbia la forza di immaginare.

Partiamo dalle proverbiali “quattro chiacchiere con un amico”

Immaginiamo se ogni nostro sfogo alcolico, ogni nostro rigurgito politico dovuto tanto alla frustrazione quanto alle effettive mancanze del nostro sistema governativo, ogni nostra battuta guascona davanti allo schermo del pc o della televisione, ogni nostra condivisione social irriverente diventi da adesso un reato. Immaginiamo che ognuno di questi comportamenti si tramuti nel legittimo fondamento alla base di una multa, nel migliore dei casi (!) o dell’ingresso delle forze dell’ordine nel nostro appartamento.

Agenti avvertiti dallo zelante vicino che ha sentito attraversare la parete da un nostro commento fuori luogo, lanciato contro uno schermo o scambiato con un amico. O peggio, molto peggio, quegli stessi agenti potrebbero essere stati avverti proprio da quell’amico, che di rientro dalla vostra serata sfiatando la sua sigaretta ha pensato che, in effetti, di quella vostra opinione dovrebbe essere informato chi di dovere.

Se anche non fossimo noi in prima persona, il soggetto del controllo, della repressione o della censura potrebbe esserlo il nostro partner o un membro della nostra famiglia. Proprio come nel film, la violenza subita da quella persona ci metterebbe in una posizione impossibile obbligandoci ad un doloro silenzio o ad un impietoso processo di graduale esclusione sociale, sempre nelle migliori delle ipotesi sia chiaro.

Esagerato? No. Il punto sta proprio qui. Se c’è una cosa che abbiamo dimenticato, da questa parte del mondo, è proprio il terrore di pronunciare parole proibite e di essere perseguiti per pensieri vietati.

La tentazione, in questo caso, sarebbe quella di considerare questo tipo libertà come rinunciabile e superflua. Ritenere l’espressione della nostra opinione come un pezzo del puzzle facilmente sacrificabile sull’altare di una buona posizione professionale o personale all’interno dello stato che dia l’idea di essere forte.

Compiamo allora un ultimo sforzo d’immaginazione: come Thanos schiocchiamo le dita e dopo lo SNAP tutti questi comportamenti svaniscono. Svaniscono le nostre idee, smettiamo di esprimerle, svanisce la nostra visione del mondo e delle persone, di nazioni estere e svanisce il nostro punto di vista sulla vita di persone, popoli e nazioni. Svaniscono anche i nostri momenti “no”, le battute a mezza bocca, i nostri discorsi fuori luogo.

Saremmo le stesse persone? Anche nel caso riuscissimo a reprime quella che è una naturale inclinazione umane alla critica, al dissenso, al dubbio, anche in quel caso possiamo affermare che non pagheremmo nessun prezzo?

Il punto è che un bambino per “crescere felice sotto dittatura” dovrebbe nascere in una determinata famiglia, con determinate idee in un particolare ed esatto momento storico in cui quelle idee sono ritenute “corrette” da quella stessa dittatura sotto cui è nato. Una definizione di felicità estremamente e colpevolmente limitata nello spazio e nel tempo per essere condivisa.

Per un bambino nato felice sotto dittatura, troppi di più nascono in famiglie ingiustamente osteggiate perseguitate, esiliate, decimate, terrorizzate. E quelli non sono bambini che crescono felici.

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