Mai e poi mai svilire il ruolo del Parlamanto: l’orrore compiuto nel corso della seconda Repubblica

“Mai e poi mai svilire il ruolo del Parlamanto. Ogni cittadino ha dei diritti ma anche dei doveri. Francamante”.

Così recitava Stanis La Rochelle mentre si intrufolava nel set nella celebre serie di Boris, in una bellissima imitazione dell’allora onorevole Gianfranco Fini. 

A distanza di ormai quasi 15 anni da tale celebre scena, nulla sembra cambiato e, anzi se possibile, la situazione appare ancora peggiorata rispetto ai governi Berlusconiani.

Ma andiamo con ordine, spiegando inizialmente gli istituti di cui stiamo discutendo per poi passare alle attuali distorsioni del sistema. 

La questione di fiducia è un istituto della forma di governo parlamentare riservato al Governo, non previsto in Costituzione, ma disciplinato dai regolamenti interni della Camera dei Deputati e, in modo più succinto, del Senato nonché dalla legge n. 400/1988, che consiste nella possibilità per il governo di ritenere un atto come fondamentale della propria azione politica al punto da far dipendere dalla sua approvazione in parlamento la propria permanenza in carica.

In altre parole e per semplificare, possiamo dire di essere di fronte ad un istituto che è finalizzato ad evitare la discussione parlamentare per arrivare all’approvazione di un testo (spesso condiviso dalle diverse forze che compongono la coalizione di governo) e che appare di vitale importanza per quell’esecutivo. 

Per sua stessa natura, non si dovrebbe abusare di tale strumento, essendo finalizzato a superare delle situazioni di crisi che l’esecutivo potrebbe incontrare lungo la strada nel corso della legislatura.

Affianco a questo strumento, la Costituzione, tra gli altri, prevede la possibilità per il governo di ricorrere anche all’istituto del decreto legge.

Il decreto legge è un istituto emergenziale attraverso il quale il governo legifera, togliendo tale potere dalla sfera del Parlamento. Il governo infatti adotta l’atto che assume, a tutti gli effetti, forza di legge, spettando al Parlamento solo il compito di ratificare la norma entro 60 giorni dalla sua entrata in vigore. 

Solo laddove tale ratifica non avvenga, la norma si ritiene come mai approvata; altrimenti, la norma viene “sedimentata” e resta in vigore fino ad eventuale e successiva abrogazione. 

Ebbene, entrambi gli strumenti sono previsti come eccezionali e come tali dovrebbe essere utilizzati: tuttavia la prassi politica ha visto sempre più il ricorso a tali istituti, arrivando a porre questioni di fiducia ogni 14 giorni e a più del 50% delle leggi derivanti da decreti legge. 

In particolare, il numero di questioni di fiducia poste dai recenti governi è stato il seguente:

–  Monti: 1 ogni 7 giorni
– Draghi: 1 ogni 9 giorni
– Meloni: 1 ogni 12 giorni
– Gentiloni: 1 ogni 14 giorni
– Conte II: 1 ogni 14 giorni
– Renzi: 1 ogni 15 giorni
– Letta: 1 ogni 29 giorni
– Conte I: 1 ogni 29 giorni

Più il governo è tecnico, più tale numero appare aumentare: la cosa certa è che il Parlamento sta dunque sempre più perdendo di centralità a favore del governo e il declino del ruolo dell’organo legislativo non sembra destinato ad interrompersi.

Che la riforma voluta dal governo Meloni (e che dovrebbe portare ad un referendum in merito all’elezione diretta del Primo Ministro) non possa diventare niente altro che la definitiva presa di coscienza dell’attuale mal funzionamento in Italia della divisione dei poteri già enunciata da Montesquieu?

Ai posteri l’ardua sentenza.

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